Riggan Thompson, il noto e stra passato interprete del supereroe Birdman cerca di togliersi maschera e piume del vecchio personaggio attraverso una prova più ardua, che decide di compiere sul temuto e ambito palco di Brodway. Dal racconto di Raymond Carver "Di cosa parliamo quando parliamo d'amore" che Riggan riadatta, dirige e interpreta, non può che derivare il futuro della sua carriera: potrà essere un pesante capitombolo oppure una stupenda rinascita, la conferma di un talento mai riconosciuto in quanto tale.


Devo ammettere che prima di vedere Birdman ho voluto aspettare la cerimonia degli Oscar. non capivo cosa potesse avere di così speciale un film come questo rispetto a quello che personalmente reputo un magistrale esempio cinematografico e a cui ho personalmente conferito il mio personalissimo Oscar come miglior film; sto parlando di Selma
Eppure, dopo la visione di Birdman ho dovuto ricredermi. Il mio Oscar da lì non si muove, sia chiaro, però devo dire che Iñárritu e il suo cast imperiale -come lo ha definito Mereghetti alla prima del Festival di Venezia- non hanno rubato un premio immeritato. Michael Keaton (Riggan Thompson), Edward Norton, Emma Stone, Zach Galifianakis, Andrea Riseborough, Amy Ryan e Naomi Watts hanno contribuito alla riuscita di questa pellicola, prestandosi a una prova ambigua, a tratti comica, poi drammatica. Ciò che colpisce in primis è la costruzione del film. Lo avete notato? Tutto appare come se lo vedessimo con i nostri stessi occhi, interrotti dal solo battito ciliare. Eppure non si tratta di un solo piano sequenza. Ce ne sono diversi, uniti poi con dei trucchi post produttivi che a una prima visione sfuggono. Ci sono lunghe e ferme inqudrature sui corridoi dei camerini, rapide soggettive, spostamente di macchina - che panoramiche non sono - musica prima extradiegetica, poi diegetica poi ancora fuori campo e di nuovo in. La fotografia è impeccabile, ad opera dell'ingordo Emmanuel Lubezki che lo scorso anno vinse l'Oscar per la miglior fotografia con Gravity di Alfonso Cuarón, premiato come miglior regista.
Al di là della tecnica di realizzazione è la trama che non quadra. C'è questo supereroe che cerca una qualche forma di riscatto, più come attore che come uomo/padre/marito; teme il giudizio severo, anzi distruttivo, di una critica fatta per etichette, superficiale e a cui non importa conoscere i retroscena, le storie personali, la fatica e l'impegno di quegli interpreti che con una recensione sul New York Times potrebbero finire sul baratro o vedere l'apice delle proprie carriere.
In mezzo al dibattito tra industria hollywoodiana e impegno autoriale trovano spazio i drammi di persone qalunque: il desiderio irraggiunto di diventare mamma, l'impotenza, la tossicodipendenza, le cause legali, i costi di un'opera teatrale, un matrimonio fallito, una figlia perduta, il successo e il potere conteso e conferito prima dalla critica degli élite e poi dai social del popolo.
A fare da filo conduttore ci sono le nevrosi di Riggan che vagamente ricordano quelle di Nina de "Il cigno nero": sente la presenza ingombrante, incessante di quell'uccello che ha segnato la sua carriera, come una voce costante nella sua testa che, assieme alla pressione e alle aspettive per lo spettacolo, non fa altro che destabilizzare l'equilibrio precario del protagonista. E' così comprensibile, o quasi, il gesto inconsulto cui ripiega Riggan durante la prima teatrale, ma di certo non si spiega la comparsa di poteri paranormali che, anzi, toglie quel tratto di umanità e autenticità al film.