Questa settimana ho continuato la preparazione agli Oscar 2015 con Unbroken, il secondo lungometraggio diretto (e prodotto) da Angelina Jolie.


Premetto che, come per The imitation game, ho deciso di non documentarmi più di tanto, non volevo farmi influenzare da giudizi più o meno autorevoli o dall'immancabile gossip che attorno a una star come la Jolie non manca mai.
E devo dire che la decisione è stata saggia. Non credo avrei apprezzato il film in egual misura se solo avessi saputo più di quanto concessomi: regista, candidature agli oscar, vaga idea del protagonista. 
Il film è una bomba emotiva, non so definirlo meglio. 
Anche qui, come nella pellicola di Tyldum, la storia viene ricostruita lentamente, come un puzzle. I singoli pezzi trovano una continuità narrativa solo grazie a una serie infinita di flashback che tra rissunti marcati e dissolvenze accompagna la visione senza mai interromperla, risultato dovuto anche all'uso di uno spazio dinamico per lo più descrittivo. 
La storia dell'immigrato italiano Louis Zamperini è struggente, impressionante; impallidisco all'idea di trovarmi nei panni di quei fortunati che l'hanno sentita raccontare dallo stesso Louie. 
Il soldato americano ne ha viste di tutte i colori da giovane. Era un teppista, geneticamente ribelle, non per cattiveria, ma appunto per natura. Grazie al fratello ha messo la testa a posto, facendo della corsa la sua valvola di sfogo, il canale in cui rigettare ogni impulso, solitamente aggressivo, derivante dalla sua condizione di emarginato. Poi ha avuto anche le sue rivincite e soddisfazioni. Ma a che prezzo? 47 giorni disperso in mare, 2 anni rinchiuso in un campo di prigionia giapponese, centinaia di giorni senza cibo e altrettanti di tortura, percosse e violenze sia fisiche che psicologiche.  
Eccezionale la prova dell'inglese Jack O’Connell nei panni di Louie: in molte inquadrature l'intensità dello sguardo e la durezza di alcune espressioni hanno ben fatto intendere la tenacia di Zamperini, senza nulla togliere alla sua umanità. 
Notevole anche l'interpetazione dell'irlandese
Domhnall Gleeson, penetrante, così cupo e distaccato, neanche mi è venuto in mente fosse lo stesso Gleeson di Harry Potter e i doni della morte. 
Il migliore però credo sia l'impensabile Takamasa Ishihara, il musicista poliedrico noto col nome d'arte Miyavi. Dotato di un magnetismo quasi irreale, l'artista nippo-coreano ha vestito perfettamente i panni di un tremendo aguzzino, tanto truce quanto insicuro, un uomo inetto e succube, si percepisce, di un padre padrone sempre presente.